Tutta quella città…non se ne vedeva la fine….. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E il rumore Su quella maledettissima scaletta…era molto bello, tutto…e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema col mio cappello blu
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino ……
Non è quel che vidi che mi fermò
E’ quel che non vidi
Puoi capirlo, fratello? È quel che non vidi…lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città
c’era tutto tranne
C’era tutto
Ma non c’era una fine. Quel che vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere.
Ma se tu
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni e miliardi milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita
Se quella tastiera è infinita non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio
Cristo, ma le vedevi le strade?
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una a scegliere una donna
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire
Tutto quel mondo
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce
E quanto ce n’è
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A
viverla…
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. E’ un viaggio troppo lungo.
E’ una donna troppo bella. E’ un profumo troppo forte. E’ una musica che non so suonare.
Perdonatemi. Ma io non scenderò.
Lasciatemi tornare indietro.
…….Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia
vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui
dicevo addio. Non sono pazzo fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci.
(Novecento. Un monologo di A. Baricco Testo usato anche per il film: “La Leggenda del Pianista sull’Oceano” di G. Tornatore).
Nei tasti del pianoforte Novecento trova conforto di fronte al disordine dell’esistenza: sempre gli stessi ottantotto, ed è con questo numero finito di note che visita gli infiniti mondi che gli occhi dei passeggeri suggeriscono. “Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare”.
Come esplorare tutte le combinazioni dell’esistenza se queste possono nascere da infinite variabili? “Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n’è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla”.
Il mondo è uno strumento troppo vasto per essere suonato senza il timore di impazzire. Novecento torna così a vivere in uno spazio confinato per fuggire il caos e l’ignoto.
Siamo spesso Max come terapeuti, siamo quella minoranza a cui si chiede di adattarci, ci viene spesso detto “Io non scenderò” perché abbandonare la nave significa perdere il controllo illusorio dei duemila desideri da prua a poppa, perché dobbiamo convincere le persone a sedersi nello sgabello di Dio e suonare un pianoforte con un milione di tasti, scegliere una strada, una donna da amare e un modo per morire.
Come generiamo questa apparente follia? Come si può eseguire l’inatteso?
Posso eseguire un’istruzione che è già disponibile, non qualcosa che non solo non c’è, ma neppure è atteso o previsto.
Max non riesce a convincere l’amico a scendere dalla nave che stava per essere esplosa mentre quotidianamente cerchiamo di generare quel cambiamento che rende possibile completare il percorso sulla scaletta ed affrontare la vita, abbandonare il regno illusorio del definito per abbracciare la realtà della indefinitezza.
Ci possono guidare tre aspetti relativi al costrutto cambiamento in psicoterapia, che non lo esauriscono sicuramente ma che rappresentano tre stelle guida in questo viaggio:

  1. Il cambiamento è un processo non lineare;
  2. Il cambiamento investe sempre e comunque un sistema;
  3. Il cambiamento possibile si innesta all’interno della fase del ciclo vitale della persona, famiglia o gruppo.

Il costrutto di un cambiamento non lineare e l’ipotesi di quale ruolo possa avere un terapeuta può essere sintetizzata così: “Questa impostazione, qui estremamente schematizzata per ragioni di spazio, ha portato a dei mutamenti significativi nella descrizione del processo terapeutico. La contrapposizione terapista-agente-di-cambiamento/paziente-difensore-della-stabilità viene a cadere. Si riconosce che il paziente ha in sé stesso la possibilità di trasformarsi. Il terapista non controlla, ne può governare il processo evolutivo che avviene comunque per salti discontinui. Il terapista è soltanto un elemento che favorisce il processo. Si assiste anche ad una riconcettualizzazione di nozioni quali crisi, sintomo, disagio e altre analoghe che, anziché espressioni di rottura di un equilibrio vengono considerate espressioni di una fase di transizione verso un diverso equilibrio. In questo quadro il concetto di resistenza non viene neanche criticato: viene ignorato. Tutto questo ha una ripercussione significativa sul modo di leggere gli eventi in terapia. L’approccio prevalente, da strategico, diventa evolutivo: la terapia è sempre più concepita come un processo graduale composto di fasi successive, ognuna delle quali costituisce un nuovo equilibrio a partire dal quale il terapista opera allo scopo di impedire o bloccare l’instaurarsi di meccanismi retroattivi ripetitivi tendenti al circolo vizioso (Elkaim, 1981).” (Fruggeri L. Dalla individuazione di resistenze alla costruzione di differenze. Riflessione sui processi di persistenza e cambiamento in psicoterapia, Psicobiettivo, X(3), 1990, pp. 29-46).
Una storia, più volta ripresa da P. Watzlawick, ci viene in aiuto con la forza esplicativa che le narrazioni hanno, per comprendere la natura non lineare del cambiamento: siamo nel 1334 e Margareta, contessa del Tirolo, soprannominata Maultasch, cioè “bocca larga” (un’elegante perifrasi dell’epoca per dare della prostituta a una signora) per aver ripudiato il marito, vuole impadronirsi del castello di Hochosterwitz, in Carinzia. Ma non può prenderlo d’assalto.
Hochosterwitz, ben fortificato e collocato in cima a una rupe, è inespugnabile: l’unica possibilità è cingerlo d’assedio, contando sul fatto che i difensori si arrenderanno per fame.
Ma è una scelta logorante per tutti. Quando le provviste del castello finiscono e alla guarnigione restano un solo bue e due sacchi di orzo, anche l’esercito assediante se la sta passando male: le truppe sono stanche, scoraggiate e insubordinate. Senza contare che le esigenze strategiche di Margareta imporrebbero di spostarle altrove.
È a questo punto che il comandante del castello dà l’ordine disperato di far macellare il bue rimasto, di riempirgli la pancia con l’orzo e di buttare la carcassa giù dalla rupe, in campo nemico.
Si tratta di uno sberleffo tanto inatteso quanto potente: gli assedianti immaginano che il castello abbia ancora tante vettovaglie da potersi permettere di bombardarli di cibo, si perdono d’animo e rinunciano a proseguire l’assedio[1].
Quello che Max avrebbe dovuto fare per aiutare Novecento a scendere dalla nave ed affrontare il complesso intreccio di vicoli che è la vita è l’utilizzazione della stessa logica paradossale che sostiene il sintono (se non cambio ho il controllo) riorientandone il senso in maniera tale che la stessa forza che sostiene il sintomo viene rivolta contro il disturbo.
Ma tutti viviamo in ecosistemi che a loro volta vivono in ecosistemi: la sola tecnicalità non basta se non si possiede una visione.
La non linearità del processo di cambiamento è legata anche alla natura profondamente sistemica del suo modello epistemologico: nel modello strategico evoluto ritroviamo infatti le tesi fondamentali della teoria sistemica:

  1. I sistemi sono costituiti da parti che sono in relazione tra loro;
  2. Il  cambiamento di una parte implica necessariamente un cambiamento in tutte le altre;
  3. I sistemi tendono all’equilibrio (omeostasi);
  4. I sistemi mantengono un equilibrio tra periodi di stabilità e periodi di cambiamento.

L’interazione tra l’individuo e il sistema si basa sulla reciprocità: gli individui influenzano i sistemi e a loro volta ne sono influenzati e in un’ottica evolutiva ne deriva che “le caratteristiche di una persona oltre ad essere il prodotto dello sviluppo ne sono anche indirettamente i produttori”.
Pensare in ottica sistemica vuol dire adottare una serie di accorgimenti: non isolare le singole idee o i processi che si vogliono esaminare; non spezzettare sistemi complessi e unitari in singoli enti o frammenti di processi più generali; e, infine, cercare di cogliere le connessioni, le interdipendenze e le emergenze tra le diverse epistemologie che solo congiuntamente contribuiscono a definire gli oggetti della nostra conoscenza.
Il compito del terapeuta è quello di osservare la natura di questa interazione reciproca, perché, come dice Bateson “ Noi studiosi delle scienze sociali faremmo bene a tenere a freno la nostra brama di controllare questo mondo che comprendiamo in nodo così imperfetto. I nostri studi dovrebbero essere invece ispirati a un principio più antico ma oggi poco onorato: la curiosità per il mondo di cui facciamo parte. Il premio di questo impegno non è il potere, ma la bellezza” (Bateson G., pag. 315).
I vari sistemi sono anche interdipendenti tra loro in quanto si influenzano a vicenda, quindi Lo sviluppo non è qualcosa che “accade” semplicemente all’individuo, ma è un processo dinamico, interattivo che coinvolge tutti i livelli dei sistemi di una società.
Quindi tecnicalità data dalla conoscenza della struttura del disturbo e di cosa la ricerca ci dice funzioni e la visione stereoscopica che ci consente di collocare la persona nel proprio contesto non sono ancora sufficienti a generare un processo di cambiamento, perché niente avviene nel tempo zero.
Il momento evolutivo in cui i due attori si incontrano è fondamentale: quale sfida evolutiva la persona sta affrontando? Come questa sfida evolutiva si connette con quella che noi come terapeuti stiamo affrontando? Qual è il pattern che le connette?
Nelle relazioni diadiche, infatti, ogni comportamento messo in pratica da uno qualunque dei due protagonisti deve essere compreso come una forma di “auto-etero regolazione reciproca” della coppia e solamente nel momento in cui un terapeuta accetta questa perdita di controllo riesce a percorrere quella scaletta che tanto spaventa il novecento che suona al nostro studio.
Nella metafora offerta da Baricco, possiamo quindi trovare la risposta alla nostra domanda, quella risposta che avrebbe potuto offrire una alternativa al nostro Novecento, quella visione eretica che avrebbe rappresentato una vera esperienza emozionale correttiva: nel tentativo di tollerare l’indefinitezza che la vita ci offre continuamente, possiamo scegliere di vivere all’interno di una nave guidata da altri oppure prenderci una patente nautica, costruirci una barca a vela e prendere effettivamente il controllo del tragitto di vita che vogliamo fare.
Siamo noi che decidiamo verso quale porto dirigerci (se cambio ho il controllo della direzione).
Bisogna essere aperti allo stupore per ciò che può esserci dietro l’angolo. La strada non finisce mai. Dietro l’angolo c’è sempre un’altra idea, una strada o cose da fare, una persona che ti aspetta. Per questo non bisogna rinunciare, ma utilizzarsi sempre.

Bibliografia

  1. Bateson G. (1977),“Verso un’Ecologia della Mente”, Adelphi, Milano;
  2. Elkaim M., (1981), “Non equilibrio, caso e cambiamento in terapia familiare”, Terapia Familiare, 9, 101-112.;
  3. Fruggeri L. (1990), “Dalla individuazione di resistenze alla costruzione di differenze. Riflessione sui processi di persistenza e cambiamento in psicoterapia”, Psicobiettivo, X(3),  pp. 29-46;
  4. Tornatore G., (1999), “La Leggenda del pianista sull’oceano”, Gremese Editore, Roma.